lunedì 21 luglio 2014

ARCHIVIO DI UN TEMPO CONDIVISO

Plurimo - Identità murate, installazione site-specific, 2014
Maria Cristina Reggio

Come nellʼesperienza di Mnemosyne a Sassari (2013), anche questo progetto di Anna Maiorano a Firenze, Plurimo - Identità murate,  compone il lavoro individuale di molte persone in un rito collettivo che le aggrega e le conduce ad agire ponendosi regole, tempi e azioni stabilite con rigore. Il risultato è unʼopera in cui la memoria singola di diversi individui si mette in relazione e diventa memoria collettiva e condivisa.

In un piccolo ufficio quasi inaccessibile al pubblico, in fondo a un lungo corridoio cui si accede da una porta sulle scale dellʼAccademia, ci si imbatte in un enigmatico archivio. É in uno spazio polveroso, vissuto ma ora disabitato, che fa pensare vagamente allʼambiente inquieto di unʼinstallazione di Gregor Schneider, con scaffali e schedari metallici e una scrivania ancora piena di vecchie carte, con pochi elementi che guidano lʼesplorazione visiva: ai muri sono appese diverse schede identitarie, ciascuna delle quali è compilata a penna con al centro una foto segnaletica, mentre un piccolo e vecchio televisore in bianco e nero e un grande  schermo digitale narrano simultaneamente e in loop lo stesso racconto.  Le decine di schede identitarie affiancate una allʼaltra sembrano rielaborazioni paradossali dei portraits  parlés inventati alla fine dellʼ800 dal criminologo francese Alphonse Bertillon, forme di identificazione segnaletica ormai quasi desuete (antesignane delle attuali carte di identità), nellʼepoca digitale del DNA, dei nickname, degli avatar, delle password e delle illusorie protezioni della privacy.


Sono le foto di tanti ragazzi, di diversa nazionalità e provenienza, tutti iscritti allʼAccademia, che hanno realizzato - in un tempo trascorso ma imprecisato - un rito collettivo nel quale hanno raccolto le loro foto contornate dalle loro informazioni personali rigorosamente tradotte in quattro lingue diverse (italiano, inglese, persiano, cinese) da un gruppo di misteriosi traduttori in occhiali scuri.  Nei due video - uno in un unico piano sequenza in bianco e nero e lʼaltro a colori e realizzato con meticoloso editing digitale, trapela la serietà e compitezza dei gesti ordinati e ripetitivi dei giovani mentre si dedicavano a questo rito. Dava inizio e fine allʼazione una doppia sirena lugubre, il cui timbro ricorda gli allarmi per la fuga durante i bombardamenti nellʼultima guerra: una guerra che nessuno di loro ha mai conosciuto personalmente, e che pochi di loro, soprattutto se cinesi o iraniani, ricordano per averne sentito parlare almeno dai nonni. Hanno però conosciuto altre paure che li hanno messi in riga, altri allarmi, altre guerre diverse.


La loro assunzione diretta del compito di autoidentificarsi in un rito collettivo nel quale sono gli oggetti dellʼazione, ma ne diventano anche i soggetti, sembra testimoniare la loro volontà di assumere la consapevolezza di essere stati in luogo dato e per un tempo definito e ormai finito, un gruppo composto da persone diverse che hanno abitato uno stesso spazio, forse anche unʼaula di una accademia, di unʼuniversità, uno spazio comune, timbrando lo spazio con le immagini dei loro visi.  Insieme, sono stati là. E le foto che tappezzano le pareti si offrono allo sguardo evocando la malinconia di quel momento passato e irripetibile - potenza cimiteriale della fotografia, come già accennato da Roland Barthes e Susan Sontag - sottolineato dallʼetà giovanile degli individui fotografati. Un archivio che, con una geniale intuizione site-specific dei curatori, è mèta, come si è detto, di un kafkiano percorso attraverso piccoli corridoi, scalette, svolte improvvise e piccole porte aperte tra tante porte inaccessibili (il piccolo locale è un ex ufficio dellʼuniversità di architettura). Tutto sembra evocare solo la memoria di qualcosa che, pur avvenuto di recente, non cʼè già più, la presenza di un passato ormai concluso. Tuttavia qualcosa non è stato scritto, ma è rimasto volatile, solo affidato al sonoro del monitor digitale che restituisce, una per una,  le decine di voci diverse dei ragazzi a cui è stato chiesto  di definirsi in una sola frase.  Le risposte attraversano lʼaria dello stanzino e si succedono, una dopo lʼaltra, proiettando lʼascolto presente in un futuro imprecisato: la testimonianza plurima diventa così memoria di un passato prossimo e anticipazione di un futuro che aspira a diventare tanto intimo quanto condiviso.

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