Il progetto Mnemosyne realizzato all’Accademia di Belle Arti di Sassari pone per
definizione al suo centro il tema cruciale della memoria. Ma di quale memoria
si tratta? Intanto, si potrebbe dire che questo progetto si rivela uno dei
tanti modi di trasformare la memoria sociale in memoria collettiva. Se la prima
è una memoria senza soggetto portatore specifico, affidata alla trasmissione
anonima tipica dei mezzi di comunicazione di massa, la seconda esiste e si
concretizza invece in virtù di un gruppo che in maniera autonoma e deliberata è
capace di farla vivere attraverso il montaggio
delle singole memorie individuali, e che in quella memoria trova appunto la
sua identità.
Quelle rilasciate in video dai
docenti che hanno insegnato nell’Accademia sono testimonianze, ed i docenti sono dunque testimoni di ciò che si è fatto in quel luogo, del lavoro che vi si
è svolto, dei rapporti che si sono instaurati con gli allievi, degli obbiettivi
che vi sono stati raggiunti. In latino vi è una doppia etimologia per la parola
‘testimone’: testis è colui che è
terzo in un procedimento giudiziario o in una contesa tra due soggetti
nell’occasione avversari, il contributo del quale può dunque risolvere il
processo o dirimere la contesa; superstes
è invece colui che ha vissuto di persona un evento fino alla sua conclusione ed
è quindi in grado di raccontarlo, di renderne appunto testimonianza. Se appare
evidente che non possiamo in questo caso utilizzare la prima accezione del
termine, basta una breve riflessione per convincersi che neanche la seconda
accezione è qui appropriata. L’Accademia, l’oggetto stesso della testimonianza,
non è infatti un fenomeno concluso nel tempo e nello spazio, qualcosa che è
diventato tradizione e di cui dunque
si può scrivere la storia;
l’Accademia è −nel tempo presente in cui pur se ne fa memoria− una realtà
vivente, produttiva, in itinere.
Basterebbe, per comprendere questo punto cruciale, pensare a due elementi,
peraltro ben evidenti. Il primo è che ognuno dei docenti ha contribuito in
grande o in piccola parte a trasformare, a plasmare, con il lavoro svolto
durante la sua permanenza in Accademia, l’oggetto stesso della sua
testimonianza, che si rivela così un oggetto dinamico, in fieri ed inscindibile dal soggetto che lo ha eletto a proprio
referente. Il secondo elemento è che le testimonianze non ricostruiscono né
restituiscono tanto date e nomi, quanto −in una pluralità di voci, gesti,
parole− correnti di esperienza, tonalità affettive, modalità viventi di
riconvocare il passato, fosse pure quello più prossimo. Siamo dunque di fronte
non a descrizioni ma a narrazioni,
perché la memoria è stata sempre intimamente legata al racconto, dunque anche
all’elemento retorico-finzionale.
Questi video ci consegnano un
tipo di memoria non scritta che è stato prevalente fino al Medioevo, una
memoria cioè a carattere orale-gestuale (ecco l’importanza del supporto
audiovisivo che ha permesso di creare quella che poi è risultata una grande
video-installazione), legata quindi fisicamente alla persona del soggetto
portatore, una memoria di parola parlata
e agìta, in cui il momento
estetico-espressivo si intreccia con il momento razionale-conoscitivo, talora
superandolo. Nell’antica Grecia, gli mnemones
(dei quali l’histor è l’erede) erano
funzionari pubblici incaricati della conservazione orale e della trasmissione
vivente della memoria. I docenti che hanno lasciato la loro testimonianza
potrebbero dirsi gli odierni “memorizzatori” di una realtà ancora pulsante e
precisamente per questo non ancora conclusa, non ancora de-finita in un dato
oggettivo.
Ma questa non è altro che la
conferma del fatto che la tradizione esiste solo in virtù della sua stessa
costruzione, nell’interminabile gioco della trasformazione e della variazione;
che non esiste in nessun luogo una verità pre-costituita che si tratterebbe di
raggiungere e finalmente conquistare e possedere una volta per tutte; che la
testimonianza non riproduce una verità già data perché la memoria non si limita
ad immagazzinare dati e cifre ma a creare itinerari, ad approntare percorsi
assieme alla loro stessa rilettura. Questo con ogni evidenza significa che la
memoria è sempre costitutivamente intrecciata all’oblìo: si tratta di fenomeni,
di pratiche congiunte, perché non può darsi conservazione integrale del
passato. Memoria e oblio non sono affatto antitetici, altrimenti non potrebbe
sussistere, come invece di fatto sussiste, una consapevolezza della
dimenticanza: qualcosa come la memoria implica la consapevolezza sia nei
riguardi di se stessa sia nei riguardi del proprio contrario. L’oblìo è dunque
una delle condizioni della memoria.
Resta del tutto evidente infatti che conservare significa ipso facto, scegliere, selezionare,
costruire. Ogni forma di memoria (dunque ogni racconto) è una registrazione
documentale, ma proprio per questo è una ricostruzione parziale e selettiva del
passato, un passato che solo e soltanto in quella memoria (in quel racconto)
può dispiegare la sua ‘vita postuma’. La memoria quindi non è un deposito a
disposizione in cui recuperare una verità “in sè” ed al quale attingere per
riabilitare, riscattare o riscoprire volta per volta ciò di cui abbiamo
bisogno, ma è piuttosto un campo dinamico e plurale attraversato da attriti,
conflitti, deformazioni e alterazioni non accidentali ma strutturali.
Non esiste dunque una “verità” dell’Accademia se
non nell’intreccio di questi racconti, se non come montaggio, come ricostruzione
generativa di cui queste
testimonianze che attestano una forma
plurale della memoria rappresentano gli indispensabili tasselli, i
necessari passaggi, gli insostituibili passanti per un tragitto ancora in
corso. Ecco perché in quella sorta di “enciclopedia orale” che Mnemosyne rappresenta, l’Accademia di
Sassari viene riscritta con tutto ciò
che essa ha rappresentato e continua a rappresentare in quanto luogo
istituzionale di cultura, di produzione, di trasmissione di tecniche,
attitudini, esperienze, saperi.
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