domenica 9 maggio 2021



Passaggi di stato

di Federico Seppi 


Federico Seppi, Svellere, 2019, Parco degli alberi sacri - Livo (Val di Non-TN), albero caduto e rame ossidato, 10x4x4 m.



Il mio intervento in merito al tema La natura dell’arte, l’arte della natura s’intitola Passaggi di stato. Un passaggio di stato è una trasformazione dello stato fisico di una materia. Essi evocano una peculiare fenomenologia del naturale, ne esemplificano la profonda realtà dinamica e metamorfica ed imprimono una visione della Natura come stato generativo continuo. Lo stesso passaggio di stato è un tipo particolare di metamorfosi che si verifica come effetto di un’influenza tra materia e ambiente. Questa dinamica implica, come condizione del processo generativo, una radicale relazionalità tra soggetti e contesti. Infine, questa mutazione fisica data dall’alterazione dei legami particellari, racconta di un mondo fluido, di una mescolanza tra microscopico e macroscopico, così come mescolato lo vedo anch’io, nella mia ricerca artistica. 1. L’arte della natura Durante un inverno, a vent’anni, di ritorno a casa da Venezia, dove frequentavo l’Accademia di Belle Arti, avviai una delle prime sperimentazioni artistiche tra arte e natura che da quel momento in avanti influenzò l’intera mia ricerca. Natural process nacque durante una tra le tante camminate nei dintorni di casa mia, verso il bosco, lungo il rio da noi chiamato Diavola. Giunto al torrente, tra gli alberi di nocciolo che ne costeggiavano le sponde, ne trovai uno, rivolto a terra, molto probabilmente caduto sotto il peso dell’ultima nevicata. Natural process non è soltanto un’opera né una performance, ma coniuga in sé entrambi gli aspetti, è un’opera-azione poetica, in cui sia gli aspetti processuali di creazione quanto lo statuto di opera effimera contano. A partire dal giorno in cui trovai l’albero caduto, per numerosi giorni dopo, tornai al rio, mettendo in atto una semplice azione: quella di immergere parte dei suoi rami nelle acque gelide della Diavola. La ritualità di questa azione portò, nel tempo, alla formazione di strati di ghiaccio che stavano sulle estremità dei rami come sue foglie, foglie di ghiaccio di un albero caduto. L’opera consisté nell’avviare un processo poi portato avanti in autonomia dalla natura, facendo dei suoi elementi - in questo caso l’acqua, il ghiaccio e i rami – e delle circostanze atmosferiche - la rigidità delle temperature – i coautori di Natural process. A partire da quell’inverno del 2010, potrei parlare della mia ricerca artistica come un lavoro svolto «nella natura con la natura stessa» . Un processo d’immersione nella vita immediata, quotidiana, dei luoghi che abito. Un abitare che si compie come esercizio estetico di contemplazione, avventura e riscoperta, di recupero di materiali autoctoni e, alle volte, di scarto. In questo senso, «la mia ricerca si basa sull’esperienza diretta di contesti e dimensioni che descrivono del naturale ciò che è più quotidiano» e fa di quel ventaglio di fenomeni fisici e atmosferici, di «tutte quelle condizioni o processi o eventi che si manifestano costantemente nella fisicità dei corpi naturali […]» come loro traccia o loro effetto, l’oggetto di sperimentazione artistica per mezzo dell’uso e indagine di materiali naturali quali legno, rame, argento, ghiaccio. Le opere che ne derivano sono come «un artificio organico reso alla natura come lascito, di cui essa altera la pelle, secondo sembianze transitorie scolpite da temperatura, umidità e luce […]» . I materiali delle mie opere sono una materia viva che muove la forma, influenza le cromie delle mie opere, le riporta nello scorrere del tempo. Il legno respira, si dilata, si muove, possiede un’intensa qualità narrativa: una capacità di articolare, sottopelle, con le sue venature, il racconto di un tempo vissuto. Ed è proprio quel vissuto, che cambia la sostanza di quel tempo, che determina una variazione così amplia dei suoi segni: quello che il legno registra nella variegata distanza tra un anello e l’altro, non è solo un tempo quantitativo ma qualitativo. Spesso, nelle mie sculture, questi segni sono rilevati e mantenuti in una coincidenza di contenuto e contenitore, significato e qualità plastiche del materiale, secondo una sorta di archeologia del segno che diviene astratto ma di cui la materia stessa è espressione. Il rame, invece, per «la sua capacità di trasmissione di energia diventa centrale nel mio lavoro sull’ossidazione dei materiali: la materia non guida più soltanto la definizione della forma, bensì è valorizzata come entità dinamica ed estetica che vive di vita propria» . Tramite il processo di ossidazione, accelerato dal mio intervento, si dà seguito ad una variazione nella composizione chimico-fisica del metallo: la soluzione in cui il sale funge da ponte accelera e prosegue l’ossidazione che è già innescata dall’umidità presente in ambiente. In questo caso la radicale relazionalità tra materiale e ambiente si visualizza secondo cromie variabili date dalla trasmissione di energia. Similmente, la foglia argento, per i suoi modi di rifrarre la luce - una rifrazione che rende la luce plumbea, che la tinge per osmosi dei colori che l’attorniano, che la varia tra imbruniture e albori a ricalcare nella memoria gli effetti atmosferici d’alta montagna - esplicita quella simbiosi tra materia e ambiente, soggetto-oggetto-contesto che confluiscono in un’ibridazione reciproca. Infine, il ghiaccio, nel suo passare di stato diviene metafora dell’esistenza nella sua continua metamorfosi, un «corpo-contenitore in continuo fluire» . Proprio nella sperimentazione di questi materiali il mio discorso artistico prosegue nutrito da una forte sensibilità ambientale. 2. La natura dell’arte L’arte comincia con un modo d’essere nella vita, si nutre di esperienza per sentire la vita, sentirla vissuta e vivente. Reinterpretando un autore a me caro, direi che ciò che tento è di parlare di Natura senza ch’essa perda vigore per via di un eccessivo addomesticamento . Ogni opera vuole mantenere questa rapidità di accesso all’osservatore, facendosi sintesi di realtà e situazioni comuni, ma che, ricontestualizzate, si caricano di una presenza evocativa e poetica che riportano a prestare attenzione, ad un qui e ora in cui risvegliare sensi e spirito in «un duplice movimento di restituzione: della natura all’arte e dell’arte alla natura» . In quest’ottica cerco di riportare l’attenzione su ciò che ci circonda con opere che invitino alla contemplazione, tramite un’arte che ricomprende in sé la Natura, incorporandone i modi, le sembianze, i processi e ne evochi la forza vitale, capendo, forse, che cultura e natura si fanno entrambe, insieme, nella vita di ogni giorno, in una reciproca mescolanza tra ambiente e viventi . Questa migrazione del Naturale di cui ho appena accennato, in reazione ad una cultura che si nutre solo di sé stessa , riporta l’arte nella sua collocazione reale, la rilega alla condizione esistenziale dell’uomo. Oggi, ciò che sento con più urgenza, il primo dato reale, esistenziale, legato ad un qui ed ora non solo individuale ma anche collettivo, sono i cambiamenti climatici di cui l’urgenza del tema ecologico «si trasferisce sul piano estetico» con opere non di denuncia «ma che si offrono come custodi della poesia della natura» invitando il fruitore «ad ammirare, la forza di uno sguardo nuovo, limpido e seduttivo sul mondo» che muta il senso della nostra presenza. Nel caso della mia ricerca artistica, quindi, situarsi e «fare conoscenza, per avvicinarsi alle dimensioni della natura e a quelle umane» , di loro le più concrete, materiali, immanenti, riguarda anche il momento di creazione, soprattutto se il momento creativo non si limita all’ideazione ma si confronta nella produzione della propria opera. In questo modo si sviluppa una conoscenza che affianca al razionale il pratico, all’intuito l’esperienza, all’emozione il sentimento e lo spirito, nell’ottica di un superamento dell’ordine gerarchico tra modalità conoscitive ma anche di ambiti di competenza e restituisce valore al fare artistico come produttore esso stesso di conoscenza, coscienza e scambio relazionale. Così, come per reciproco contagio, più indago l’universo naturale e più incontro me stesso, includendo il mio corpo e gli aspetti processuali del lavoro come percorsi indispensabili. Un altro aspetto importante è la relazione tra arte e memoria di cui Svellere ci offre un esempio. Questo grande albero è uno di quelli abbattuti da Vaia . In quest’operazione dopo il prelievo in loco, l’albero è stato prima di tutto scortecciato perché fosse preservato dal bostrico, un insetto che s’inserisce sotto corteccia riducendo il flusso della linfa dunque la capacità di fotosintesi della pianta. Questo scheletro nudo è sospeso a mezzaria, fissato nel suo cadere, sotto il peso di una goccia in rame battuto, incastonata tra i rami, in memoria dell’evento accaduto. La goccia richiama la potenza scatenata dalla tempesta, ma resta ugualmente simbolo di vita e di un ordine naturale di fronte al quale ci troviamo sopraffatti per l’accelerazione di cambiamenti climatici che cominciano a mostrarsi nella loro potenza effettiva, anche nelle nostre regioni montane. Sono, dunque, partecipazione, celebrazione, preservazione e testimonianza le azioni intraprese tra Arte e Natura, in simbiosi con il territorio in cui vivo. Inoltre, coniugando conoscenza ed esperienza l’arte si fa ricerca: esplorando ciò che mi circonda, prendendo appunti dei paesaggi apparsi durante viaggi casuali, o durante spedizioni per documentarmi, andando a visitare i luoghi per assorbirne le atmosfere e fissarne i tratti, i dettagli, le apparenze. Ciò è stato fondamentale se penso alle opere presenti in "Icebreaker", mia prima personale, curata da Giovanna Nicoletti, a Boccanera Gallery di Trento . Se l’interesse verso la morfologia dei territori cominciò già a partire da lavori come Studi di Paesaggio e Valle Sospesa, nell’ultima mia ricerca essa si coniuga ad un’attenzione particolare rivolta alla luce. I ghiacciai alpini sono l’oggetto di studio sul campo da cui parte l'elaborazione dell'arco narrativo segnato da "Icebreaker". In quest'esposizione, i segni che producono opere come Stelvio sono appunti grafici, graffi e cancellature, segni-affetto che raddoppiano e schivano continuamente il soggetto a cui si riferiscono. In opere come queste il tratto grafico provoca, sulla forma del ghiacciaio, una nuova morfogenesi, in un confluire di invenzione e intuizione, in cui il tratto indica, nel proprio andamento processuale, l'emergere di una mappatura del ghiacciaio come organismo in tensione. In queste opere i ghiacciai sono corpi resi instabili e vibranti dall'erosione per graffiatura della foglia argento che moltiplica esponenzialmente i punti di rifrazione della luce. Ed è l’integrazione tra luce e ambiente a restituire, per simulazione, le sensazioni atmosferiche avute sul campo, e ad alternare vedere e visione. Di fronte a Superfici Sospese, con la combinazione della luce in parte rifratta e in parte assorbita dalla foglia argento, con le linee scolpite sottilissime come un segno grafico, nonché con le dimensioni di queste pareti alte più di tre metri, lo spazio assume una sorta di virtualità temporale. Un’atmosfera che dilata la percezione della nostra presenza, creando un punto di collisione tra le consuetudini percettive che strutturano il luogo comune di una natura intesa come concetto e l’apertura smisurata dell’immanenza in cui i ghiacciai figurano «la potenza della natura sintesi del tempo atmosferico, di quella natura capace di trasformare gli elementi, dalla roccia alla vegetazione, e allo stesso tempo di conservare la memoria degli eventi e degli esseri che lo hanno attraversato […]»



1°Grenzländer, Terre di confine, catalogo della mostra a cura di Giovanna Nicoletti, Boccanera Gallery, 2018, p. n. n. 
2°Icebreaker, catalogo della mostra a cura di Giovanna Nicoletti, testi di Chiara Casarin e Giovanna Nicoletti, Boccanera Gallery, 2021, p. n.n. 
3°A cura di Francesca Fattinger, Federico Seppi: un approccio ecologico ed estetico alla natura, in Franz Magazine (consultato il 29/04/2021) 
4°Be the difference… With Art!, catalogo della mostra a cura della Commissione Arte Rotary Club Asolo e Pedemontana del Grappa, 2019, p. n. n. 
5°Federico Seppi, Materia Viva, tesi di diploma di II livello accademico in scultura, Accademia di Belle Arti di Venezia, a. a. 2018/2019, relatrice Raffaella Miotello, p. 42 
6°Icebreaker, op. cit., p. n. n. 
7°Henry David Thoreau, Camminare, Piccola Enciclopedia, SE, Milano, 1999. Mi riferisco alle righe in cui Thoreau, chiedendosi quale letteratura darebbe espressione alla Natura, disse «Poeta dovrebbe esser colui che […] sa risalire all’origine delle parole ogni qualvolta le usi, trapiantandole sulla pagina con la terra ancora attaccata alle radici», p. 43 
8°Federico Seppi, op. cit., p. 20 
9°Sul rapporto tra ambiente-viventi si veda Emanuele Coccia, La vita delle piante, Metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna, 2020 
10°In ricordo della lettura di Francesco Arcangeli, Corpo, azione, sentimento, fantasia, Lezioni 1967-1970, Vol. II, Il Mulino, 2015 
11°Camilla Bertoni, Seppi narra i ghiacciai. Natura, arte e poesia alla Boccanera Gallery, Corriere del Trentino, 2021, 29 aprile, Spettacoli, p. 11 
12°Icebreaker, op. cit., p. n. n. 
13°Ibid. 
14°Tempesta del 26-30 ottobre 2018 è un evento che si è verificato sul nordest italiano (interessando quasi essenzialmente l’area montana) a seguito di una forte perturbazione di origine atlantica che ha portato sulla regione persistenti piogge a partire dal 26 ottobre 2018. A questo si è aggiunto anche un fortissimo vento caldo di scirocco che, soffiando tra i 100 e i 200 km/h per diverse ore, ha provocato lo schianto di milioni di alberi con la conseguente distruzione di decine di migliaia di ettari di foreste alpine. 
15°Icebreaker, a cura di Giovanna Nicoletti, testi a cura di Chiara Casarin e Giovanna Nicoletti, Boccanera Gallery, Trento, marzo – giugno 2021 
16°Icebreaker, op. cit., p. n. n.



Natural process, 2010, rami, ghiaccio, acqua, dimensioni variabili

sabato 8 dicembre 2018

Settantadue ore a Palermo

Antonella Parente - Empatia, Installazione ambientale, Oratorio di Santo Stefano Protomartire, 2018

A spasso per Palermo
di Flavia Matitti


Se vuoi conoscere te stesso,
Guarda in ogni angolo del mondo.
Se vuoi conoscere il mondo,
Osserva nel profondo di te stesso.

Rudolf Steiner, Decima conferenza,
Dornach, 9.11.1923


Camminare e conoscere sono attività intrecciate da sempre. L’idea che ci sia un nesso tra il muoversi a piedi e lo sviluppo della conoscenza, intesa, a seconda dei casi, come scoperta interiore, maturazione intellettuale o crescita spirituale, ha trovato espressione soprattutto nella pratica universale del pellegrinaggio, ma anche nella sua versione “moderna”, rappresentata dal turismo. Sull’immaginario legato al camminare, inoltre, la scuola filosofica peripatetica ha esercitato una grande influenza, diffondendo la tradizione che Aristotele tenesse le sue lezioni passeggiando con gli allievi. L’idea dunque di un rapporto stretto tra il deambulare, il pensare e l’apprendere ha radici antiche e, con sfumature diverse (camminare, vagabondare, errare) è giunta fino a noi.
Secondo il filosofo e poeta americano Henry David Thoreau (1817-1862), autore di una raccolta di pensieri intitolata significativamente Walking (1862), camminare (nei boschi) è un atto che favorisce la riflessione su se stessi e la scoperta della Natura. Suona invece bellicoso, ma anche vitalissimo, il motto coniato dai futuristi agli inizi del Novecento, «Marciare non marcire», che è un’esaltazione del dinamismo contro la stasi passatista. Un altro importante interprete del tema della promenade è stato Walter Benjamin (1892-1940), grande maestro dell’arte della flânerie. E alla fine del secolo, quando la pratica del camminare è tornata di grande attualità, il collettivo artistico Stalker ha riportato in auge il camminare quale strumento estetico di conoscenza dello spazio, come racconta uno dei fondatori del gruppo, Francesco Careri, nel suo saggio Walkscapes (2006).
La tradizionale esperienza del camminare, unita al piacere della scoperta e della conoscenza, ha caratterizzato anche il viaggio di studio compiuto a Palermo, dal 16 al 18 giugno 2018, in occasione di Manifesta 12, da un gruppo di studentesse e di studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma, accompagnati da Anna Maiorano, docente di Decorazione e da chi scrive, docente di Storia dell’arte contemporanea.
Tutti noi, infatti, abbiamo potuto visitare le principali sedi di Manifesta e altri importanti luoghi espositivi della città, compreso Palazzo Riso, muovendoci esclusivamente a piedi, in una sorta di moderno cammino «iniziatico», scortati da un autentico genius loci, la palermitana Marilena Pecoraro, docente di Anatomia artistica presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Nel corso di queste camminate esplorative compiute per le vie di Palermo ed entro rigogliosi giardini, ci siamo imbattuti, tra l’altro, in un’esortazione scritta con la vernice blu da una mano anonima sul muro grigio e scrostato di una casa: «Sii felice. T’insegneranno a non splendere e tu splendi, invece. Pasolini». Ci siamo fotografati all’ombra dei meravigliosi ma vagamente inquietanti ficus del giardino di piazza Marina, teatro un tempo di spietate esecuzioni, come ricordava Leonardo Sciascia a proposito di questi stessi ficus ritratti da Bruno Caruso, i quali sembrano trattenere coscienza del luogo e comunicare ancora un che di demoniaco e di carnivoro. E abbiamo incontrato in vari angoli della città l’enigmatica figura del Genio di Palermo, un vecchio barbuto che pare nutrire al petto un serpente, per alcuni immagine dello straniero.
La dodicesima edizione di Manifesta, biennale di arte e cultura contemporanea itinerante per l’Europa, si intitola, come è noto, Il Giardino Planetario. Coltivare la coesistenza e affronta un tema suggerito dalla realtà stessa di Palermo, città di snodo di molteplici flussi migratori, dagli antichi Fenici, Greci, Arabi e Normanni fino ai recenti arrivi dal Nord Africa e dall’Asia. Una città modellata dalle differenze e dalle contaminazioni che la biennale assume a laboratorio di nuovi, possibili modelli di cittadinanza. In particolare l’Orto Botanico, creato alla fine del Settecento, dove coesistono specie di piante provenienti da ogni continente, è assunto a metafora della capacità di questa città di aggregare le differenze.
La visita di Manifesta, comprendente luoghi naturali e altri fortemente antropizzati, ha offerto agli studenti molteplici spunti di riflessione incentrati sui temi dei migranti, del viaggio,  dell’accoglienza, della diversità, dell’aggregazione e della coesistenza.  
I lavori esposti nella mostra intitolata Settantadue ore a Palermo, curata da Anna Maiorano e Marilena Pecoraro, allestita nel suggestivo spazio barocco dell’ex-Oratorio di Santo Stefano Protomartire, sono il frutto di questa esperienza conoscitiva ed estetica compiuta, in particolare, da quattro studentesse: Antonia Parente e Alessia Liberati, italiane, e Yang Liufei e Wei Lan, cinesi. Tutte e quattro le giovani artiste frequentano il Corso di Decorazione – Arte Ambientale e Linguaggi Sperimentali dell’Accademia di Belle Arti di Roma, tenuto da Anna Maiorano, e nei loro lavori le sollecitazioni visive e ambientali ricevute a Palermo si sono fuse con l’esperienza fatta nell’ambito di un più ampio progetto di ricerca, svolto all’interno dello stesso corso, sul tema dell’accoglienza e del dono, che ha incluso anche una visita al Centro Astalli di Roma per l’accoglienza dei rifugiati in Italia.

Centrali nella mostra appaiono dunque i temi del viaggio, della fragilità, dell’accoglienza, declinati in vario modo a seconda delle diverse sensibilità individuali. Tutti i lavori sono stati realizzati per l’occasione e sono il frutto di tale esperienza.
Wei Lan ha realizzato un video, dal titolo 72 ore Palermo (2018), con propri filmati e in parte utilizzando le immagini fornite dai partecipanti,  che documenta in modo corale i momenti del viaggio di studio compiuto a Palermo da un gruppo di studentesse e di studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Il gruppo era formato da studentesse e da studenti provenienti da varie parti d’Italia, ed inoltre dall’Iran e dalla Repubblica Popolare Cinese. Il video restituisce dunque un’affascinante costellazione di sguardi sulla città di Palermo.
Antonia Parente ha realizzato un’installazione site-specific dal titolo Empatia (2018) che occupa buona parte del pavimento dell’ex-Oratorio di Santo Stefano Protomartire, trasformato attraverso una pellicola adesiva specchiante in una superficie riflettente di circa venti metri quadrati. La giovane artista pugliese ha tratto ispirazione per il suo intervento dal lavoro 32 metri quadrati di mare circa (1967) di Pino Pascali, un’opera divenuta ormai un’icona assoluta del Mare. Sulla superficie specchiante Antonia Parente ha sparpagliato alcune magliette bianche da adulto e altre rosse da bambino, per ricordare col bianco l’innocenza di quanti affrontano la pericolosa traversata del Mediterraneo, ma non ce la fanno, e col rosso tutti i bambini vittime della tragedia, ai quali le madri fanno indossare proprio questo colore nella speranza di renderli più visibili in mare. Purtroppo questo non basta a salvarli, come testimonia la terribile vicenda del piccolo Aylan Kurdi, morto annegato nel 2015 nel vano tentativo di raggiungere l’Europa con la famiglia e ritrovato senza vita sulla spiaggia turca di Bodrum. Alcune parole scritte sulla superficie specchiante (accoglienza, incontro, coesistenza, ospitalità, tra le altre) completano il lavoro. I visitatori sono a loro volta invitati a specchiarsi, un atto che favorisce l’empatia e induce a riflettere su se stessi in rapporto agli altri, e a scrivere sulla superficie un loro pensiero.   
Alessia Liberati, autrice del lavoro intitolato Accogli (2018), è intervenuta nella nicchia situata sul lato sinistro dell’ex-Oratorio di Santo Stefano Protomartire dove, al suo interno,  ha sistemato  una conchiglia che reca una perla e al di sotto ha posto altre tre conchiglie di dimensioni minori. Lei stessa ha realizzato le conchiglie utilizzando il Das. L’intervento da un lato appare come un omaggio alla grande tradizione decorativa delle chiese barocche palermitane, dall’altro intende evocare un paesaggio marino e dunque rimandare al mare, teatro di tante tragedie legate ai migranti. Inoltre nella visione di Alessia Liberati la perla diviene metafora dei migranti stessi, che secondo l’artista dovrebbero essere accolti con la stessa gioia con cui accogliamo un dono della natura portato dal mare. Completa l’intervento un audio che la giovane artista ha registrato in riva al mare e che restituisce il rumore dell’acqua e del vento, le voci dei pescatori e dei passanti lungo la spiaggia.
Yang Liufei è autrice di due video. Il primo, intitolato Arte Natura Passo a Palermo (2018), offre un originale racconto del viaggio-studio compiuto a Palermo adottando un punto di vista ribassato, concentrato quasi esclusivamente sulla strada percorsa e sui piedi dei partecipanti. Tale scelta esalta proprio il tema del camminare che, come si è visto, ha caratterizzato questo viaggio-studio. E anche se forse non sono fonti alle quali la giovane artista cinese ha direttamente guardato, tuttavia le immagini del video possono far pensare al celebre dipinto di Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912), oppure a suggestioni cinematografiche, come il film Gradiva (1978) di Raymonde Carasco, ispirato all’omonima novella (1903) di Wilhelm Jensen, o perfino alla nota sequenza cinematografica di Nanni Moretti sulle scarpe nel film Bianca (1984), dove il protagonista riflette: «Ogni scarpa una camminata. Ogni camminata una diversa concezione del mondo»L’altro video, intitolato, Luce (2018), appare invece come una notturna meditazione, dall’epilogo drammatico, sul tema della fragilità e della morte. Nel video la protagonista è la stessa giovane artista, impegnata in un gesto semplice eppure rituale: quello di accendere, una dopo l’altra, 99 candele.

Yang Liufei - Luce, 2018



mercoledì 28 novembre 2018

FAMILY GAMES #4, REITERATI RITI

“Di me c’è qualcosa che esiste, ecco”, l’ultimo lavoro del progetto FAMILY GAMES è una performance multimediale, un un work in progress che mira al coinvolgimnto trasversale degli spettatori in forma di work in progress, formulando domande sull’esistenza e sulla una serialità dei riti odierni, deprivati del rapporto con il sacro e destabilizzati dalla diffusione globale del consumo. 
La sua drammaturgia (video, set and costume design, testo e audio design) è stata interamente composta da un numeroso gruppo di studenti, nel corso di un workshop durato un intero anno accademico a cura di Franco Ripa di Meana, Maria Cristina Reggio, Marilena Pecoraro con la collaborazione di altri docenti dell'Accademia.

 Il punto di partenza è consistito in una serie di domande che sono state poste in forma di intervista tv a diverse persone e le cui risposte sono state condivise in un gruppo Facebook privato. Tutti i testi della performance sono stati tratti dalle risposte date dagli intervistati e rielaborati, registrati, montati , ripetuti e riutilizzati come testo vocale e teatrale. L’azione si snoda partendo da quelle stesse domande che vengono poste dai performer anche agli spettatori seduti sulle sedie disposte nel palcoscenico: le loro risposte, filmate attraverso smartphone e caricate sul gruppo privato Facebook, vengono proiettate ingigantite sulle pareti, mentre al centro dello spazio teatrale troneggia un simbolico vescovo - operatore di smartphone. 

Di che famiglia sei, quale è il tuo rito?
Cosa fa si che un certo gruppo di corpi di animali o di piante o di esseri umani sia considerato una famiglia? Non ci si riferisce alle istituzioni religiose o sociali, ma piuttosto a una classificazione che pone a sua volta qualche dubbio su quali siano i criteri per determinarla. Quindi non è necessario che ci sia un padre o una madre o figli e parenti, ma che ci sia una comunità di esseri viventi affini, riuniti in un certo luogo e intorno a qualcosa di comune. Questa cosa comune può consistere semplicemente nel bisogno di stringersi vicino all'altro per questioni di affinità, riunirsi intorno a qualcosa come un tavolo, un pranzo, una casa, unitamente all'avversione verso chi è fuori, chi non fa parte del proprio gruppo. Questo il nodo su cui ci si concentra da qualche anno: cosa significa per noi e per il nostro corpo abitare le nostre piccole comunità?

Qual è il tuo rito?

La quarta annualità di FAMILYGAMES si è soffermata sulla necessità che abbiamo, oggi, di riprodurre alcuni riti, deprivati della religiosità cristiana che per secoli ha caratterizzato la cultura occidentale e destabilizzati nella loro unicità dalla diffusione globale mediatica del consumo. Di fronte alla Chiesa che assume toni e modi comunicativi veicolati dai mass media e dalla cultura pop, le persone disertano i riti sacri e gli spazi ad essi consacrati, restringendo lo spazio del rito alla propria persona, alla propria casa e alla propria piccola comunità, oppure dilatandolo nelle anonimie ed eteronomie individuali della rete. Il rito perde così la sua sacralità anche nel linguaggio comune, diventando un fenomeno quotidiano più vicino all'abitudine e al gioco piuttosto che all'azione propiziatoria o religiosa. La domanda allora che ci si è posti è stata la seguente: se non abbiamo più riti sacri condivisi che ci restituiscono un'immagine certa della nostra vita sociale, quale comunità si crea intorno ai nuovi riti quotidiani che costellano le nostre piccole esistenze di abitanti del villaggio globale?

Dai frammenti al montaggio con la regia di Franco Ripa di Meana

Quest'anno il progetto FAMILY GAMES ha cambiato formula operativa, e, piuttosto che lavorare ciascuno sulla propria personale concezione ed esperienza di comunità e famiglia, producendo singoli video personali, si è deciso di sperimentare una forma nuova di condivisione del lavoro che include diversi laboratori interconnessi. Per prima cosa, si è tentato di mettere dunque in discussione il linguaggio che connota la relazione tra sé e gli altri. Tutto è iniziato dal porsi e porre domande, individuando nelle risposte il testo che avrebbe composto le parole su cui lavorare: la loro scrittura, il loro colore, il loro suono, il loro ripetersi fluido come testo scritto e parlato. Questo è stato un principio compositivo messo in opera dal regista Franco Ripa di Meana, con cui è iniziata quest'anno una proficua collaborazione, e che da diversi anni organizza nelle Accademie di Belle Arti italiane workshop di regia che confluiscono in performance finali. A lui si deve attribuire il sapiente lavoro di selezione e montaggio realizzato sui frammenti che abbiamo creato nei laboratori: un procedimento di montaggio che non è da considerarsi nella sua accezione meccanicistica, ma piuttosto come un principio compositivo che organizza e fa crescere, mano a mano, qualsiasi opera.

Partendo da alcuni primi sondaggi, realizzati utilizzando i sistemi di ripresa audiovisiva professionali e non, si è lavorato per accumulazione, portando in ogni sessione di laboratorio di regia, i materiali di performance e di video che mano a mano si costruivano anche nei laboratori di Anatomia del corpo vivo: azioni fisiche singole e collettive progettate dagli studenti di arti visive, azioni riprese dagli studenti di arti multimediali, video-interviste e incisioni audio preparati dagli studenti di arti visive e arte per la terapia

Con il Collettivo Cinetico

A metà del percorso è intervenuta un'esperienza che ha plasmato la piccola comunità dei partecipanti, il workshop condotto in accademia dal Collettivo Cinetico, che ha dato una sferzata potente all'idea che si potessero superare i confini dei campi disciplinari in Accademia: ciascuno si è trovato con il proprio corpo di fronte a quello dell'altro, in un percorso che aspirava alla conoscenza di sé e di chi gli stava accanto, esplorando attraverso la performatività i confini di una nuova comunità nascente ed effimera, il gruppo di FAMILY GAMES. Alcuni esercizi sperimentati con il Collettivo Cinetico sono entrati nel nostro laboratorio e rimasti nella memoria condivisa, plasmando le modalità di incontro tra i corpi individuali e sociali, e confluiti, insieme a tutte le altre esperienze di un anno di lavoro, nell'ossatura della performance finale.

Descrivere la performance Di me c'è qualcosa che esiste, ecco, non è possibile, come non si può narrare in differita ciò che è successo in venti minuti dove si concentrava il lavoro di sei mesi. Si può solo pensare di avere sperimentato un modello di lavoro condiviso nel quale il corpo e la vita dei partecipanti sono elementi vivi, germinali e al tempo stesso compositivi della performance. Un modello che aspetta solo di essere ripreso, rielaborato, modificato, perfezionato. Dove i performer non sono artisti-attori professionisti di fronte a un pubblico, ma osservatori partecipanti e creativi della realtà in cui vivono. Infaticabili corridori che saltano, cercando di superare i propri limiti, finché ne hanno le forze.

lunedì 13 marzo 2017

SPOSI PROMESSI 2017


Sposi Promessi è l'ultimo lavoro del Progetto Microgalleria che, ispirandosi alla lettura del romanzo storico italiano per eccellenza,  I promessi sposi di Alessandro Manzoni, vuole indagare su come i miti familiari, privati o condivisi, si intreccino negli incontri tra futuri o neo-sposi, coppie consolidate, conviventi. Attraverso il matrimonio, due persone sanciscono la loro appartenenza e integrazione in un determinato gruppo socio-culturale e ne ereditano la storia, le memorie.  L'arte visiva, che ha come oggetto le regole, le pieghe e i paradossi dei comportamenti umani, può svelare e rivelare gli archetipi presenti nel pensiero simbolico che abbiamo ereditato, spesso in maniera inconsapevole, dalla storia della nostra specie umana: prima di tutte, per quanto riguarda il matrimonio, la regola dello scambio e del dono, che è alla base della vita di relazione su cui si fonda la collettività umana. 

Si prende in mano il libro che tutti gli italiani hanno letto, o almeno conosciuto, odiato, amato, alle scuole medie e, invertendone il titolo e prendendo alla lettera queste stesse parole, si osservano i nuovi Sposi Promessi, ovvero quelle persone che, oggi, hanno promesso di sposarsi o si sono sposati negli ultimi due anni. 

Alle coppie interessate si chiede di partecipare a un incontro nel corso del quale viene loro richiesta la disponibilità a farsi intervistare con ripresa video e fotografare.

mercoledì 22 giugno 2016

SPOSI PROMESSI

Progetto Microgalleria, Sposi Promessi: Venite a prendere un caffè con noi, giugno 2016
Sposi Promessi é un progetto d'arte che vuole indagare sui modelli e le forme della promessa di matrimonio nell’attuale contesto urbano della capitale, dove si assiste a profondi e continui mutamenti del tessuto sociale. Attraverso il matrimonio, due persone sanciscono la loro appartenenza e integrazione in un determinato gruppo socio-culturale. L'arte visiva, che ha come oggetto le regole, le pieghe e i paradossi dei comportamenti umani, può svelare e rivelare gli archetipi presenti nel pensiero simbolico che abbiamo ereditato, spesso in maniera inconsapevole, dalla storia della nostra specie umana: prima di tutte, per quanto riguarda il matrimonio, la regola dello scambio e del dono, che è alla base della vita di relazione su cui si fonda la collettività umana.

Partendo dalla lettura collettiva del libro i Promessi Sposi di Manzoni, che ha avuto luogo nel XII Municipio di Roma con l'iniziativa Un libro, un quartiere, promossa dall'associazione culturale Monteverdelegge nel biennio 2013-14, si prende in mano il libro che tutti gli italiani hanno letto, o almeno conosciuto, odiato, amato alle scuole medie e, invertendone il titolo e prendendo alla lettera queste stesse parole, si osservano i nuovi Sposi Promessi, ovvero quelle persone che, oggi, hanno promesso in municipio di sposarsi.

Queste le coppie che, finora, alla data del 22 giugno 2016, partecipano al progetto:
Eleonora e Simòn
Sara e Giuseppe
Lea e Giacomo
Federica e Stefano
Marina e Fernando

martedì 19 aprile 2016

Parlare la stessa lingua per non dimenticare

Narine Nalbandyan, Ci siamo! Ci saremo! E ci moltiplicheremo!, video, 2015



Narine Nalbandyan, autrice di questo  video che è stato proiettato nella sala F del Padiglione Italia ai Giardini in occasione della 56ª Biennale Venezia, è una studentessa di nazionalità armena che ha frequentato lo scorso anno le lezioni di Anna Maiorano all'Accademia di Belle Arti di Firenze. Il suo progetto è dedicato genocidio degli Armeni, di cui ricorreva il centenario nel 2015. 
L'autrice ha deciso di fare questo video per far conoscere a tante persone la storia del suo popolo, la sua cultura e soprattutto cosa vuol dire essere armena: "Vivendo in Italia, in un paese straniero, ho capito che il miglior modo per comprendere la cultura di un paese è impararne la lingua. All’inizio ho fatto vedere ai miei compagni della scuola di decorazione un documentario creato da me, che spiegava che cosa era successo nel 1915 con il popolo armeno. Dopo di che soltanto quelli che erano interessati hanno partecipato al progetto e ho chiesto a loro, che venivano da diversi parti del mondo (Iran, Italia, Cina, Kazakistan, ecc.) di parlare in armeno".
Nel video, ciascun ragazzo recita un verso di una poesia dell' armeno Paruyr Sevak (1924-1971) “Siamo pochi ma ci chiamano armeni”.